Si è soliti individuare generalmente il passaggio definitivo dal mondo del clavicembalo a quello del pianoforte moderno nell’opera, a cavallo tra ‘700 e ‘800, del grande Muzio Clementi: un imponente corpus di sonate e studi pone le basi della tecnica pianistica che, pur poggiando sulle solide basi del classicismo, si apre verso le vertiginose innovazioni romantiche.
In un quadro siffatto, tuttavia, risulta difficile comprendere come pochi compositori, anche di eccezionale talento e fecondità abbiano potuto traghettare l’arte tastieristica dalle prodezze digitali di uno Scarlatti (indubbiamente geniale, ma ancora clavicembalista) ai titanici tormenti di un Beethoven o alle vette trascendentali di un Liszt.
La realtà storica è, come sempre, più complessa: le dinamiche artistiche (come tutte le dinamiche umane) non riposano mai unicamente sull’azione di un singolo, ma sempre sull’azione di forze (opposte o concorrenti) che inscrivono al loro interno, inglobandole o espellendole, le esigenze espressive del singolo artista. Sarà compito della Storia poi valorizzarle o attenuarle, esaltarle o soffocarle, renderle perenni o polverizzarle per sempre.
Se si considera il lasso di tempo che lega la seconda metà del ‘700 alla seconda metà dell’800 il lavoro di riscoperta non è mai davvero cominciato: i nomi un tempo gloriosi dei vari Cramer, Hummel, Moscheles, Thalberg, giacciono sotto la coltre polverosa dei secoli in attesa che qualche virtuoso si prenda la briga di mostrare la loro importanza storica. Si tratta tuttavia di nomi noti, per i quali si dispone di ampio materiale biografico (talvolta anche bibliografico) e di sparute registrazioni (più che altro a titolo di “curiosità”).
Anche il quadro relativo al pianismo italiano dell’epoca non fa eccezione. La vulgata tradizionale pone l’asse Frescobaldi – Scarlatti – Clementi – Martucci come un unicum omogeneo e pochi pianisti, anche tra i professionisti, sarebbero in grado di citare nomi contemporanei ai sopracitati.
Eppure oltre all’importanza storica c’è anche il gusto di indagare lo stile dell’epoca, le nuances territoriali, e quant’altro. Il presente lavoro su Gaetano Valeri (Padova 1760 – Padova 1822) si inscrive in questo quadro. Compositore oggi sconosciuto, ma attivissimo all’epoca, Valeri fu Maestro di Cappella al Duomo di Padova a partire dal 1805. Compositore prevalentemente di musica sacra (si contano anche due sporadiche sortite in campo teatrale) ed abile organista e pianista, Valeri si presenta come un ibrido interessantissimo tra un linguaggio classico ormai di uso comune all’epoca ed un tecnicismo ferrato, talvolta clementino: è un caso tipico di ottimo musicista che si occupa più di creare piccole forme cesellate tradizionalmente che di squassarle per esaurirne le possibilità espressive.
Le sue Sonate per tastiera (pianoforte ed organo sono usati spesso in modo intercambiabile, come nell’uso del tempo) si presentano in un movimento, raramente in 2, e in forma bipartita.
Generalmente prive di contrasti troppo drammatici mostrano un totale dominio della materia ed un’invenzione felice, dove al gusto per il bozzetto si affianca la consapevolezza tutta artigiana di inserirsi in una solida tradizione, quella tastieristica italiana.
In questo progetto si trovano incise per la prima volta tutte le sonate espressamente indicate dal Valeri “per pianoforte” (o per organo e pianoforte) sono inserite, arricchite da una Sinfonia (trascritta per il pianoforte dall’autore stesso) e da un Adagio, sempre originale per pianoforte.
Ingegno “di creazione e non d’imitazione” (come giustamente rimarca N. Pietrucci, nell’unica nota biografica pervenutaci, all’interno della “Biografia degli artisti padovani”, Padova, 1858), Valeri merita tutta l’attenzione che si deve ad un fenomeno culturale ricchissimo come il primo ‘800 strumentale italiano.